L’INFERNO SIAMO NOI?

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L’inferno siamo noi?

A conclusione della rassegna cinematografica  “L’inferno siamo noi?” realizzata grazie alla collaborazione di Amenic Cinema e Associazione Psicologi del Benessere, ecco un breve excursus delle serate per chi non ha potuto partecipare.

APB è un’associazione culturale nata dal proficuo incontro tra colleghi appassionati di Psicologia del Benessere che hanno deciso di indirizzare i propri sforzi alla diffusione di un approccio orientato ai valori della Psicologia Positiva allo sviluppo delle persone, dei gruppi e della società.

Le riflessioni in merito alla Psicologia del Benessere emerse dalla rassegna sono state per la maggior parte “a contrasto”, a partire dal titolo stesso della rassegna, che richiama l’inferno personale che a volte ci troviamo a vivere, per proseguire nelle storie narrate che sono per lo più racconti di malessere e disagio, ma in cui la ricerca del benessere è sempre presente.

Il primo film proposto è stato “Safe” di Todd Haynes del 1995. La storia racconta di Carol White (Julianne Moore), moglie-tipo nella San Fernando Valley, la cui tranquillità viene improvvisamente destabilizzata da strani e numerosi malesseri fisici. La situazione via via precipita, nessuno ha spiegazioni da offrire e gli atti curativi a cui aggrapparsi si fanno sempre più radicali.

Questo racconto mi ha dato lo spunto per parlare della complessità, dell’unicità e, forse, anche dell’imprevedibilità, del percorso personale di ciascuno di noi. Ciò sottolinea la necessità di uscire dalla tentazione “dell’etichettatura”, per tenere conto dell’unicità di ogni individuo e quindi astenendosi dal catalogare le persone in categorie e strutture standard, per offrire una modalità di approccio realmente volto allo sviluppo della persona. Il film parla di “olismo”. Ad oggi il concetto si è meglio strutturato indicando l’integrazione tra mente, corpo e spirito, una modalità di approccio all’essere umano che integra, anziché scindere la persona nelle sue parti malate. La psicologia del benessere non è riducibile al pensiero positivo, o alla negazione di ciò che non va. Ma è la considerazione dell’essere umano nella sua totalità, alla ricerca dell’integrazione del benessere psichico, fisico e spirituale e nello sviluppo dei punti di forza.

La rassegna è proseguita poi con “Prozac Nation” di Eric Skjoldbjærg del 2001. Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Elizabeth Wurtzel, racconta la storia di Lizzie (Christina Ricci), studentessa del corso di giornalismo ad Harvard alle prese con la pressione dello studio, con i problemi familiari, con gli amici ed i ragazzi. Una ragazza fragile e instabile che raggiungerà obiettivi importanti (scriverà per Rolling Stone e riceverà diversi importanti riconoscimenti), ma che a causa della depressione rischierà di perdere tutto, fino alla decisione di far uso di Prozac, per risolvere il problema.

Ovviamente non è il mio scopo negare l’efficacia dei farmaci o sconsigliarne l’utilizzo quando è il caso, ma in una visione più allargata, potremmo dire olistica, il farmaco da solo non può essere sufficiente. Se consideriamo gli aspetti mentali, fisici ed emozionali come qualcosa di intrinsecamente collegato, capiamo che il sintomo è solo un campanello di allarme che indica uno squilibrio. Ed è solo considerando il sintomo in quest’ottica più ampia che potremo veramente pensare di raggiungere uno stato di salute. Il farmaco, a volte, può spingere ad evitare questo approfondimento, proprio perché spegne il campanello di allarme. Questo, lo ribadisco, non significa non usare i farmaci quando servono, ma vuol dire prendersi cura di sé ascoltando i segnali che il nostro corpo manda, considerandoci nel nostro complesso di pensieri, comportamenti ed emozioni.

Il terzo film è stato “Elling” di Peter Næss del 2001. La storia racconta di Elling che, dopo aver passato due anni in una clinica psichiatrica, si prepara a tornare nel cosiddetto “mondo reale”. L’assistenza sociale norvegese consente a lui e a Kjell, il suo compagno di stanza, di abitare insieme in un appartamento a Oslo, con l’obbligo di prendersi cura di se stessi: la loro nuova vita si rivelerà piena di prove da superare, perché devono imparare a fare cose che per gli altri sono del tutto normali. L’incontro di Kjell con una donna e la scoperta di Elling della poesia norvegese segnano l’inizio di un nuovo corso, che costringerà i due a mettercela tutta per vincere la loro personale sfida.

Questo film offre in modo molto piacevole un esempio dell’importanza di un approccio olistico e individualizzato al benessere. I due simpatici protagonisti infatti si trovano ad affrontare le richieste di un assistente sociale che applica in modo rigido uno schema di “funzionamento” delle persone: se voglio essere considerato “normale” devo comportarmi in un “certo modo”. Lo sviluppo del film, però, mostra come Elling e il suo compagno di stanza hanno in realtà delle risorse e dei punti di forza che non vengono presi in considerazione dagli enti istituzionali che li hanno in carico. Un approccio orientato positivamente, invece, ha come focus l’individuazione e il rafforzamento delle risorse personali, quale base per lo sviluppo di capacità per il raggiungimento di una situazione di benessere, in un processo chiamato empowerment, che indica appunto l’assunzione di potere, che facilita nell’individuo o nei gruppi l’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé e delle proprie capacità.

La rassegna si è conclusa con “Synecdoche, New York” di Charlie Kaufman del 2008. In una cittadina newyorkese abita Caden Cotard (Philip Seymour Hoffman), che è un frustrato regista di teatro, soffre di un mucchio di strane affezioni, ha una relazione coniugale che si mette su una brutta strada ed il pensiero della morte lo ossessiona. Quando tutto di lui va in pezzi l’idea di realizzare lo spettacolo teatrale più ambizioso ed enorme mai visto al mondo diviene la sua unica ancora di salvezza. Ma è solo l’inizio di una spirale tremendamente priva di soluzione.

“Synecdoche, New York” è un film molto particolare che ha diversi piani di lettura e spunti da approfondire. La scelta è caduta su ciò che mi ha suggerito lo sviluppo della trama. Il protagonista, Caden Cotard, si mostra poco interessato a vivere il presente, il “qui ed ora”, ma piuttosto si proietta nel futuro (accompagnandosi in questa attività con una serie di paure e pensieri di morte) o nel passato e nell’ossessione di riviverlo e cavarne il senso. Questo atteggiamento, sebbene non estremizzato come mostrato dal film, è molto comune, direi quasi universale. Il problema è che questo atteggiamento di proiezione nel passato e nel futuro ci impedisce di accorgerci di ciò che accade nel presente, e, quindi, di goderne. Le filosofie orientali e, recentemente, anche alcuni sviluppi delle terapie cognitive, sottolineano come sia fondamentale per il benessere imparare a controllare la tendenza della mente di fuggire (o rifugiarsi, se vogliamo) nel passato o nel futuro, per imparare ad accogliere e accettare il momento presente, il qui ed ora. Questo consente una maggior presa di coscienza di sé e della realtà e quindi la capacità di godere di più della propria vita e di agire efficacemente sulla realtà.

Quindi l’inferno siamo noi? Si. Sicuramente. Spesso più che le circostanze esterne siamo noi stessi ad imprimere una direzione di sofferenza alle nostre vite. Ma ciò mostra anche il rovescio della medaglia. Perché noi possiamo essere anche il paradiso.

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Anna Sari, psicologa

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